Elaborato vincente 2010

Mercoledì 22 Dicembre 2010, nella Sala Gialla di Via Tommaso Pendola si è svolta l’iniziativa per la premiazione del Premio di Scrittura Creativa.
La vincitrice Giorli Alessia si aggiudica il premio con un elaborato su Simone De Bauovoir.

 

Ho letto Memorie di una ragazza perbene per la prima volta un paio di anni fa, e fu subito amore. Nel pieno delle elaborazioni immaginarie del mio futuro, alcune effettivamente molto fantasiose, credevo e sognavo a occhi aperti di poter arrivare a toccare tutto, ma proprio tutto, con la mia sola mano, grazie alla sola lunghezza e forza del mio solo braccio – che in effetti mi sembravano infinite, un po’ come l’ambizione che sosteneva i miei progetti.

Simone De Beauvoir diventava ai miei occhi l’immagine concreta della realizzazione delle mie aspirazioni, ma in modo estremamente sottile, come un filo trasparente e inestensibile. I suoi pensieri di bambina e giovane ragazza mi sembravano i miei, mi auguravo in silenzio che la sua forza di volontà fosse la mia.

La straordinarietà della sua figura, che per me si stagliava coloratissima su uno sfondo scuro, stava essenzialmente nell’apparente “normalità” in cui gran parte della sua gioventù era trascorsa: non c’era stata un’emancipazione da una particolare durezza della vita nell’infanzia, non c’erano state fughe romanzesche, non c’erano stati voli precoci nel mondo della letteratura che poi l’avrebbe accolta e il suo diario sembrava piuttosto dominato dalla volontà e da un personalissimo progetto più che da una serie di eventi irripetibili per la maggior parte delle ragazze.

La sua unicità emergeva piuttosto come un fatto privato, un pensiero ricorrente, un post-it costantemente di fronte ai propri occhi, un’immagine cui da dietro faceva eco il paragone letterario con la tutt’altro che convenzionale Jo March di Piccole donne, che le permetteva di considerare se stessa “l’Unica”, destinata ad un percorso speciale e non banale di moglie e madre devota e sovrastata dalla figura di un uomo cui inevitabilmente sottomettersi.

Simone portò a compimento il suo destino, realizzò se stessa come una donna assolutamente unica, coraggiosa per le scelte e le idee che ribadiva senza esitazioni, attraverso una vita che la condusse esattamente al punto dove lei voleva arrivare – o forse sarebbe più esatto dire che fu Simone a condurre la propria vita dove lei stessa desiderava giungere. Le sue Memorie mi hanno sempre fatto pensare che per qualunque donna dotata di un obiettivo e di forza di volontà fosse possibile fare lo stesso, ma è davvero così?

La società che la De Beauvoir ha attraversato nella sua lunga vita ha subìto nel corso dei decenni cambiamenti che sono stati definiti epocali e il “secondo sesso” è riuscito a mettere in piedi una vera e propria rivoluzione dei costumi e, a conti fatti, a vincerla. Ma davvero oggi la battaglia delle donne può dirsi assolutamente, totalmente esaurita considerando fatte tutte le possibili conquiste? Il trionfo è stato reale o soltanto un’illusione?

Le ragazze, le donne della mia generazione hanno l’impressione che non ci siano ostacoli che siano dovuti al loro essere donne che possano frapporsi tra la loro vita e le loro aspirazioni. Il ritornello musicale che fa da sottofondo a questa convinzione è la sigla di Sex & the city, ci sostengono la certezza di non aver mai conosciuto la patria potestà, di conservare il nostro cognome nel matrimonio, di poter essere donne in carriera, di successo, di poter essere esattamente al fianco degli uomini in ogni circostanza senza nessun limite e perfino talvolta un gradino più su di loro. Così come per la De Beauvoir l’istruzione e la cultura diventavano il mezzo principale verso l’emancipazione e anche un passo più in là, nella direzione che l’avrebbe condotta a fare di se stessa “un essere insostituibile”, anche alle donne di oggi è dato frequentare scuole e università senza che la ricerca di “un buon partito” le ossessioni e le vincoli al momento dell’avvenuta conquista nel modo in cui accadeva alle damine dell’Ottocento, tanto e tanto accuratamente descritte da altre donne dotate di un’acutezza del calibro di quella di Jane Austen, ma penso anche a film ambientati in tempi a noi molto più vicini (1953) come Mona Lisa Smile con Julia Roberts. C’è anche molto di più, così tanto da rischiare di scadere nella “banalità” delle argomentazioni: possiamo fare figli senza un uomo accanto e senza essere giudicate o escluse dalla schiera della gente “perbene”, ma possiamo scegliere di non averli quei figli, o magari neanche quel marito, abbiamo nelle nostre sole mani la nostra vita e il nostro corpo.

Si potrebbe dire che il problema moderno consiste proprio in questa presunta banalità della tematica del “secondo sesso”.

Scrive Simone nelle Memorie:

“[..] bisognava che l’amore mi giustificasse senza limitarmi. L’immagine che evocavo era quella di una scalata in cui il mio partenaire, un po’ più agile e robusto di me, mi avrebbe aiutata a issarmi di balza in balza. Ero più severa che generosa, desideravo ricevere e non dare; se avessi dovuto rimorchiare un poltrone mi sarei consumata dall’impazienza. In questo caso lo stato di nubile era preferibile al matrimonio. La vita in comune doveva favorire e non ostacolare la mia impresa fondamentale: appropriarmi del mondo. Né inferiore né differente, né offensivamente superiore, l’uomo predestinato avrebbe dovuto garantirmi la mia esistenza senza toglierle la sua sovranità.”

E più avanti:

“In ogni caso, io dovevo salvaguardare ciò che v’era di più stimabile in me: il mio amore della libertà, della vita, la mia curiosità, la mia volontà di scrivere.”

Ho sempre amato molto questi passi e il primo in particolare, ma mi sono sempre chiesta se tali affermazioni oggi possano apparire un po’ retrò, vintage come la gonna preferita tra tutte le gonne della propria mamma ma che non riusciremmo a vederci addosso in nessun caso perché non si adatta a nessun altro oggetto del nostro guardaroba neanche con un po’ di sforzo, bella da guardare ogni volta ma bella soltanto quando appesa in un armadio di ricordi che non ci appartengono.

Chi sente il bisogno di pensare all’amore e al proprio uomo imponendosi di ricordare a se stessa costantemente di essere un individuo inscindibile dalla propria personalità, preziosissima e da difendere a qualsiasi costo? Sembra una condizione scontata, già data senza la necessità di pagare costi aggiuntivi.

Ma quando pensiamo alle donne, alle donne del mondo, non può non venirci in mente che ancora la donna è come in una “prigione che non ha sbarre”, o che, quando le ha, vogliono essere mostrate sotto l’aspetto ambiguo della morale.

Fuori dai cancelli dorati del mondo Occidentale, le donne non possono esistere senza una figura maschile che le affianchi, sia egli il padre o il marito. Non hanno consistenza, non hanno letteralmente un posto nella società come entità singole. Protette, per non dire nascoste, sotto veli neri che lasciano che la luce cada soltanto sui loro occhi scuri e pieni di una dignità splendida, vivono come spose, come madri, reali e allo scoperto soltanto sotto gli occhi del coniuge e della famiglia tra le mura domestiche.

A volte però, può accadere che qualcosa nell’equilibrio di queste vite si spezzi, ed ecco che sui loro occhi rischia di cadere anche il buio delle pietre che infliggono una crudelissima morte, per crimini confessati il più delle volte sotto tortura.

Se per la donna pensata dalla De Beauvoir è possibile chiedersi – nello spirito esistenzialista che domina il pensiero della scrittrice francese – quale debba essere il futuro in costruzione dell’identità femminile, la volontà di queste donne che vivono il nostro stesso secolo può certo osare molto meno in un mondo in cui ancora non si riesce a impedire una pratica come quella dell’infibulazione, che annulla la donna che la subisce non solo dal punto di vista psicologico e non solo perché trasforma ogni rapporto in un evento doloroso e del tutto privo di piacere, ma perché il parto, che dovrebbe essere l’unica finalità, diventa il momento della morte sia della madre sia del bambino.

La donna, a conti fatti, non ha ancora smesso di lottare contro l’immagine di se stessa come un’Eva nata dall’uomo, senza nessun altro scopo se non quello di condurre alla rovina se non tenuta sotto stretta sorveglianza, tenuta a freno da ogni fantasia più ardita riguardo la propria vita e la propria femminilità. E a pensarci bene, questa battaglia non è MAI stata vinta, nemmeno al di qua dei confini dell’Occidente.

Quando Simone De Beauvoir parlava del proprio impegno per conquistare un lavoro indipendentemente da un uomo, per trovare la propria strada nella realtà della cultura e della filosofia contribuendo lei stessa a rinforzarla e innovarla, di certo non pensava che l’emancipazione avrebbe preso la piega che è sotto gli occhi di tutti.

La libertà di indossare un bikini è diventata la moda di esibire il proprio corpo di fronte ad una telecamera perché quella è considerata la strada per il successo.

La libertà di gestire il proprio corpo è diventata la voglia di adattarsi a stereotipi improponibili di forme innaturali, dal silicone alla passerella.

La libertà di raggiungere ruoli lavorativi di prim’ordine è a volte ancora affiancata dall’idea di dover prima trovare un uomo che, in cambio di altro, ci dia la spinta giusta per salire i gradini della carriera.

Questi sono i modelli che la società, in alcuni casi perfino la politica, ci sottopongono.

La De Beauvoir lasciava aperto lo scenario futuro per una nuova definizione della donna libera dall’etichetta del “deuxième sexe”, ma se la donna era finalmente libera di dare alla propria condizione un nuovo volto che non fosse solo il binomio di carriera e diritto di voto, certo si aspettava che sarebbero rimasti fondamentali, come del resto erano stati per lei, fattori come il merito, l’impegno, le capacità, la volontà, il carattere al fine di dare a ciascuna la propria direzione.

Scriveva Alda Merini:

“Gli uomini soffrono per il mondo, per la poesia e non hanno tempo di amare. E se amano, la donna deve essere disposta a seguirli senza lasciarli mai, senza dire loro che ha fame, freddo e bisogno d’amore. Sono quelle femmine erronee e private che morranno di passione e di stenti, ma con questi uomini faranno le grandi guerre quando non le grandi congiure. Alle donne non spetta nulla. Il palpito di un libro appena sfornato, un grazie per la terza pagina, e nient’altro. La crudeltà di questi uomini nei loro confronti è orrenda, ma per la massa la loro carità è enorme.”

Quindi la donna deve sparire mentre lui, uomo vittorioso e non fragile, se la trascina per i capelli su e giù nelle sue gloriose scorribande d’amore. Ma nessuna lotta sarebbe mai possibile se non ci fosse una donna destinata a seguirlo, a morire per lui. Purché non abbia la presunzione di essere un poco uomo e un poco pazza come qualsiasi eroe.”

Una donna come la Merini, che ha vissuto intensamente il secolo scorso, descrive così il rapporto uomo-donna, consapevole anche di rispolverare sotto una nuova luce il detto che vuole una grande donna dietro un grande uomo. E penso a Ida Irene Dalser, che per amore decise di vendere tutti i suoi averi per finanziare il progetto giornalistico del suo uomo attraverso la fondazione de Il popolo d’Italia, quello stesso uomo che fece sì che sia lei che suo figlio venissero condotti a morire in manicomio.

La donna però non può e non deve restare ancorata all’immagine raccontata dolorosamente dalla Merini, ma piuttosto continuare a ricordare quotidianamente a se stessa e alla società il proprio ruolo, che per sentirsi giustificato non ha più bisogno di una rivoluzione quanto piuttosto di un consolidamento attraverso l’impegno individuale di ciascuna donna. Simone De Beauvoir diceva: “Non voglio che la vita abbia altre volontà che la mia”.

Alessia Giorli

 

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